Ancora buio, ma l’intorpidimento lasciò posto alla sensazione di giacere
sul duro e scomodo, insieme a dei movimenti bruschi di trascinamento ovattati.
Poi nel buio sorsero i rumori, clangore, tosse, vociare con lo scoppiettìo
di un fuoco che inizia la combustione, seguito da uno sfrigolìo che in altri.
Dopo venne l’olfatto, risvegliato insieme ai dolori che si facevano strada
fra le fibre muscolari come per capillarità, poi si accentuarono la puzza di
chiuso e putrido, l’odore della combustione del legname e della terra.
Infine il buio cominciò a diradarsi, il colore arancione dell’illuminazione
notturna cominciò a spennellare la tela oscura della perdita dei sensi
definendo tre figure davanti al naso di Kafraghas.
La prima figura era corta, magra ma con un addome pronunciato. Il volto era
coperto da un tessuto rosso con trama quadrata che lasciava intravedere piccoli
buchi da cui sembrava impossibile poter mettere a fuoco. Calato sul capo un
cappuccio che si posava pesantemente sulle spalle, al collo penzolava una
collana il cui ciondolo era un piccolo braccio umano mozzato, alla vita un
grembiule bianco da macellaio sporco di sangue.
La seconda era invece molto più alta e possente, talmente grassa che varie
pelli erano legate e strette contro il grasso a formare un abito scomposto. Il
capo aveva un cappuccio legato con altre corde più sottili e troppo strette per
una persona normale, mentre il viso era coperto dal fondo di un cesto di vimini
che era messo a mò di maschera.
La terza figura invece aveva quantomeno metà del volto scoperto, un naso
adunco e lungo incastrato fra le rughe sudicie di una vecchiaia antica, una
benda sporca di sangue copriva l’occhio destro mentre il sinistro invece aveva
la forma di una sorta di bubbone gonfio, largo oltre la cavità oculare, con
all’interno incastonati tanti piccoli occhi piccoli quanto un polpastrello. Sul
viso aveva un sorriso marcio fatto di denti da squalo, che a discapito del
colore sembravano ben saldi e taglienti, il viso spiccava sotto un lungo
cappello a punta rosso.
L’alito della vecchia svegliò Kafraghas come con una botta di adrenalina:
- All’anem e chitemmuort, marònn e
cherè -
L’elfo si accorse di essere ancora legato, aveva stretti pure i sacchetti
che lo costringevano a tenere i pugni chiusi. Le tre megere cominciarono a
ridere guardandolo, tre voci diverse ma che comunicavano lo stesso senso di
malessere.
- Ho ho ho! è sveglio!
- Ahh la lingua elfica! Erano secoli che
non l’ascoltavo!
- Guardate che capelli, ci farò una
treccia!
- Mangerò anche quelli
- Insomma ragazze! Non è carino fare a
pezzi un ospite così presto!
- Hai ragione, scusaci tanto elfo
- Ma lo vedete quanto è carino?
- Ohhh si! Quanto è bello!
- Verissimo, mi piace molto, non ce lo
mangiamo subito!
Kafraghas intanto stava lì con la bocca schiusa e lo sguardo vacuo, poi si
destò cominciando ad agitarsi nella gabbia.
- Maronn e pumpej! Addò stann e
guardie?! Ch’è succies? -
La più grossa cominciò a ridere - Calmati
elfo, non ti è successo nulla di male. Era scritto che una creatura semidivina
con il tuo sangue avesse incrociato nuovamente il nostro percorso dopo mille
anni. Noi ci uniremo a te, e tu ti unirai a noi così da avere il potere di
risvegliare Cthylla, la nostra sacerdotessa! -
L’elfo continuava ad agitarsi in stato confusionale, la strega con il
cappello rosso allora allungò una mano per toccarlo, finendo prima con
l’accarezzare una gamba e poi finì a palpargli il sedere - Su su stai buono elfo! Ti faremo divertire prima di unirci a te! -
L’altra con il braccio umano al collo annuì, cominciando a ridere - Sono sicura che hai un sapore divino -
Il prigioniero seguitava
ad agitarsi, la voce gli tremava mentre le iridi saettavano in giro cambiando
colore in base alla luce - Uagliù! Uagliù
arò stat! Aiutatem! Ajiutaaateme! Marònna santa! - Il tocco di quelle mani
incrostate con spesse e lunghe unghie nere non faceva altro che agitarlo di
più, fino a quando la strega scuotendo il capo propose - Non aver paura splendore, ci prenderemo cura di te, ti faremo stare
bene –
La più grossa si piegò andando a premere con il cesto di vimini che gli
faceva da faccia contro le sbarre della gabbia in cui era - Ci vuoi? Ci desideri? - il tono cercava
di assumere una connotazione maliziosa ma aveva l’effetto di una secchiata
d’acqua gelida.
Quella con il braccio richiamò le sorelle scrollando le spalle - Deve essere ancora agitato, in fondo ha
avuto un incidente. Lasciamolo riposare, dopo aver mangiato starà sicuramente
meglio - Dopo aver pronunciato quelle parole, si avviò verso alcune scale
che portavano ad una botola in superficie seguita dalle altre due.
Kafraghas riprese fiato guadagnando nuovamente una certa stabilità
razionale ed emotiva, dopodiché cominciò a guardarsi intorno. Spinse con le
spalle facendo perno usando la punta del piede, dannazione, la porta della
gabbia era troppo resistente, provò ad agitarsi ma era come inchiodata al
pavimento. Presa una pausa dai tentativi, più per riprendersi dallo sconforto
che dalla stanchezza, diede una seconda occhiata più profonda al luogo in cui
si trovava: Il rettangolo che componeva il magazzino in cui l’avevano stipato
era colmo di casse con non ben definiti materiali organici all’interno,
alzavano un odore misto di frutta sfatta e marcio di carne. Alle pareti fra
mensole colme di tomi, spuntavano come corna delle lampade ad olio il cui
sporco rendeva la luce opaca. Una pesante tenda di juta copriva l’ala finale
della stanza, l’elfo si concentrò un attimo e con l’aiuto della sensibilità
uditiva di cui disponeva riuscì ad intuire che oltre quella copertura c’era
qualcosa che dormiva. Non capiva bene se fossero persone o animali, di certo ve
n’erano quasi una decina di respiri flebili e costanti.
La botola si riaprì prima ancora che potesse fare ulteriori considerazioni,
dal piano superiore sbucò la strega col cappello rosso, fra le mani aveva un
pentolone con un mestolo che affogato in una melmosa brodaglia che oscillava
fra il beige ed il verde.
- Amore, ti ho preparato la cena
- Canzonò la megera all’indirizzo del prigioniero dopo aver posato pesantemente
il contenitore. La vecchia si sedette davanti alla gabbia e sfilò un cucchiaio
di legno da sotto il tessuto della manica unto ed annerito, andando a
raccogliere una cucchiaiata di “minestra” con un pezzo di quello che sembrava
un piccolo bulbo oculare semi disciolto.
- Grazij assaje signò, ma nun teng assaje
famm - Cercò di giustificarsi Kafraghas sostenendo inappetenza, la megera
non disse nulla all’inizio ma l’elfo notò l’eccessivo contrarsi dei muscoli
della mano intorno al cucchiaio di legno, e corse ai ripari - Vabbuò ja, comme se fa a dicere che nò aropp
tutt stu bell ‘e dio, e po’ si nun magn faccij panz ‘e rin una cos - Eh,
non poteva di certo rifiutare quel ben di Dio, rischiando poi di dimagrire
eccessivamente senza mangiare. La megera sembrò compiacersi ed inarcò un
sorriso animalesco mostrando i denti aguzzi, infine allungò il cucchiaio,
forzando l’elfo a mandare giù.
- Marònn e comm’è bbuono! -
Esclamò Kafraghas mentre le lacrime cominciarono a scorrergli sulle gote
- Piangi? - La strega aggrottò un
sopracciglio
- Ehh, nisciuno cucina pemmè a na
vita - Continuò a singhiozzare l’elfo trattenendo il vomito
- Oooohhh tesoro! Com’è dolce il tuo
dolore, vieni qua! - La strega allungò la manaccia per tirare Kafraghas dal
colletto ed avvicinare il volto alle sbarre, una volta che il prigioniero era a
portata di mano tirò fuori una lingua lunga e scura da rettile dando una lenta
leccata alla lacrima. L’elfo socchiuse gli occhi sprofondando in una intensa
concentrazione, il contatto era umido, limaccioso e ruvido insieme, l’odore che
usciva dalla bocca somigliava alla fossa dei rifiuti di un mattatoio, lungo la
colonna vertebrale gli sembrava percorsa da svariati aghi di ghiaccio.
- Ma.. Pecché nun te pozz accarezzà?
- Osò domandare l’elfo, la strega lo guardò con sguardo accigliato e
l’espressione di chi soppesa
- Ti piaccio? - Chiese poi la
vecchia, curiosa, il prigioniero annuì
- Allora se ti piaccio baciami! -
Gracchiò la strega riaprendo le fauci
Kafraghas si fece forza e si abbandonò ad un lungo bacio appassionato, nel
mentre notò che le catene ai polsi sparirono, così come i sacchetti che gli
costringevano le mani chiuse, ne approfittò per portare le mani al volto della
donna e farle una carezza. La strega si allontanò soddisfatta - Mangia tutto mi raccomando - Squittì per
poi tornarsene di sopra.
L’elfo poggiò le spalle alle sbarre della gabbia, dal suo naturale colorito
pallido passò prima al viola, poi al verde. Sollevò lo sguardo che da ambrato
era diventato nero cominciando a mormorare -
Gesù, Giusepp’, Marja, San Juann, Sant’Antonj, San Gennàr, San Pascàl, Padre
Ppij, o’ bue, l’asinell’, Gaspare, Zuzzurr e Baldassàrr - Soffiò
quell’antica invocazione come una preghiera, una richiesta di soccorso
dall’alto che però non arrivò. Si distese su di un fianco, piegò le gambe a
rannicchiarsi in posizione fetale e pianse, pianse tanto.
Il risveglio fu brusco, da un dormiveglia quasi piacevole l’elfo fu
trascinato dai propri sensi in quel mondo fatto di odore malsano, rumori di
respiro ignoti, appiccicaticcio del pavimento sudicio. Aprì gli occhi e si mise
seduto lasciando cadere lo sguardo sulla pentola ancora lì, ormai fredda. Voltò
il capo e puntò con improvviso timore la botola che però non si aprì, ripensò
al bacio e gli venne quasi da vomitare, poi calò lo sguardo su quello schifo
portatogli per pasto e si sentì anche peggio, era la parte di un occhio piccolo
quella che galleggiava nella brodaglia, forse di un cane o qualche altro
animale e quel pensiero lo fece sussultare. Tirò a sé il pentolone e cominciò a
rovistare dentro come in preda ad una frenesia fino a trovare i resti di quella
che sembrava una piccola spalla, da quel pezzo isolò la cartilagine che, ancora
abbastanza tenera, cominciò a spezzare in varie asticelle ricurve, recuperando
un’altra più solida dal pezzo di osso che pendeva. Kafraghas dispose quei
frammenti così ricavati con cura davanti a sé, come a volerli istintivamente
asciugare, poi poggiò l’orecchio a punta sulla cassa della serratura e cominciò
a picchiettare con un indice.
- Uhmm - Tac. Tac. Tac. - Uno e doje - Tac. Tac. Tac. Annuì - E, so doje rient -
Usando la sensibilità del proprio udito riuscì a carpire il numero e la
posizione dei dentini che fermavano la serratura, prese la prima cartilagine
ricurva, la infilò all’interno della cavità premendo il primo pistoncino,
infine con un agile movimento del polso riuscì a spezzarvi un pezzo di ossicino
all’interno per bloccare il perno. Stessa cosa si mise a fare con il secondo,
stavolta doveva scendere più in profondità ed era difficile mantenere la
concentrazione. La sostanza melmosa che componeva quel “cibo” però, gli fece
perdere la presa, facendo scivolare quel grimaldello improvvisato, spingendo
l’elfo ad uno sfogo frustrato: - Mannaggi
Jeppson!!! -
A quel vociare la botola si aprì e la strega più grossa si avvicinò a
controllare. I passi rumorosi e claudicanti si avvicinarono al prigioniero che
però sembrava dormire e mormorare durante il sonno. La strega si guardò intorno
e, vedendosi sola, rubò un po’ del cibo destinato al detenuto divorandolo
voracemente dopo aver immerso quella strana maschera di vimini all’interno del
pentolone, infine, dopo un sonoro *burp* si avviò nuovamente al di sopra,
rassicurando le due sorelle.
- Mamm ro’ carmine - Sospirò
Kafraghas con un filo di voce rilassando le membra, tornò seduto e recuperò il
pezzetto di cartilagine che riuscì a spezzare bloccando il secondo pistoncino,
fu facile così utilizzare il pezzo di osso rigido per ruotare la serratura ed
aprire la porta della gabbia.
Rimessosi in piedi ebbe un po’ ad abituarsi, l’elfo non riusciva a
quantificare il tempo privo di conoscenza e forzato a stare seduto in quella
gabbia. Fece qualche passo muovendosi silenziosamente verso la botola e riuscì
ad udire le tre megere litigare senza difficoltà: Si stavano contendendo i suoi
glutei arrostiti. Kafraghas deglutì e decise di tornare sui suoi passi, notò
che accanto al tendone visto in precedenza, sotto al soffitto, vi era una
finestra rettangolare chiusa. Salendo su di una credenza, tastò la resa di una
mensola che usò come piattaforma per aprirsi la via d’uscita senza troppe
difficoltà. Sbucò con il capo all’esterno e persino l’aria malsana della palude
gli sembrava fresca e nuova rispetto all’olezzo che appestava quella casa,
aguzzò la vista per scrutare fra i rovi con la scurovisione, le orecchie ritte
sul capo intanto sondavano l’ambiente circostante per anticipare eventuali
pericoli. Nulla, prima di compiere il balzo che l’avrebbe portato verso la
libertà si fece due conti da ladro in testa: Il seminterrato era un rettangolo,
ad un’estremità vi erano le megere mentre al lato adiacente, oltre la metà, la
finestra. Sollevò un attimo lo sguardo reputando le architravi in legno sotto
al soffitto come una struttura atta a reggere un pavimento sovrastante, niente,
c’era una buona probabilità di non essere visto nemmeno dalle megere e calcolò
che nell’arco di una trentina di secondi si sarebbe potuto dileguare in tutta
sicurezza a patto di non trovare pericoli invisibili o magici, il suo sesto
senso però non gli comunicò nulla del genere. A fermare il fuggitivo dal
lanciarsi verso la libertà fu uno strano mormorio molto flebile, distinto fra
quei respiri sommessi che venivano da oltre il tendone. Per ulteriore scrupolo
Kafraghas scese nuovamente nel seminterrato e si infilò oltre la tenda,
sembrava che vi fossero svariate casse coperte da altrettanti teloni di juta,
sudici e pesanti, che in più punti parevano gocciolare del liquido scuro
indefinibile. L’elfo si avvicinò ad una di queste casse e la scoprì, rivelando
una gabbia simile a quella in cui era stato rinchiuso, sebbene più piccola.
Genuflettendosi riuscì a distinguere una piccola figura legata ai polsi e
seduta a terra, immobile, con un cappuccio senza fori sul capo. La mano del
ladro andò a sollevare quel copricapo asfissiante lasciando che un paio di
occhioni catatonici incontrassero la sua figura, incastonati nel volto sporco e
smagrito di un bambino. L’elfo schiuse la bocca per la sorpresa e si alzò in
piedi cominciando a scoprire le gabbie in maniera isterica, rilevando in tutte
lo stesso contenuto. Ad un tratto il respiro di Kafraghas si fece sempre più
intenso, quasi da iperventilazione, ebbe un flashback della collana di una
delle megere, la cavità oculare che aveva mangiato e le ossa di una piccola
spalla che ricordavano quelle di un cane, i gusti alimentari che parevano
millantare le streghe e quei bambini lì stipati come una merce. Le pupille
dell’elfo si strinsero fino a lasciare quasi solo il bianco dell’occhio mentre
il respiro non accennava a rallentare. Sollevò lo sguardo, fissò per un attimo
la finestra che lo separava dalla libertà di lasciarsi quell’orrore alle spalle
ed infine si voltò verso la botola tenendo i pugni chiusi fino a sbiancare le
nocche, ringhiando fra i denti: - ‘Sti lote, munnezz, chiaviche, quand’è ver à
marònn l’aggia schiattà a cap -
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